Stati di coscienza, premesse epistemologiche e paradigma
Uno stato di coscienza consente di vedere certe cose, e non altre. È un modo di guardare il mondo: è caratterizzato da determinati filtri, presupposti, premesse epistemologiche.
In termini di PNL, è un set di metaprogrammi, di convinzioni e di valori. Nella sua zona più profonda contiene un paradigma, cioè un atteggiamento di fondo che guida la conoscenza e la ricerca, in genere del tutto inconscio.
Anche la ricerca scientifica è guidata da uno stato di coscienza, condiviso dagli scienziati che partecipano all’impresa. In base a tale stato di coscienza sono possibili certe osservazioni e azioni, e non altre. Ad esempio, quando la nostra medicina ha cominciato ad interessarsi dell’agopuntura cinese, ha preso a considerarla con la lente del proprio stato di coscienza, nel quale certi fenomeni, come quelli energetici, non sono osservabili. Pertanto, l’agopuntura che è stata studiata dai nostri medici non è più agopuntura cinese, ma una sua versione fortemente impoverita. Essa è stata impoverita della sua matrice filosofica, è diventata una tecnica e ha perso molto della sua potenziale efficacia.
Questo tipo di fenomeni non si verifica solo nella traduzione da una cultura ad un altra, ma anche nella trasmissione di conoscenze e competenze tra persone della medesima cultura. Ma in che modo è possibile? Almeno in campo scientifico, il linguaggio di precisione, il linguaggio «oggettivo» non consente di evitare questo inconveniente?
La risposta è: si e no. Sì, almeno tendenzialmente, per determinati aspetti dell’esperienza, quegli aspetti che il paradigma condiviso considera pertinenti oggetti di indagine; no per tutti gli altri aspetti.
Ecco un esempio che è veramente sotto gli occhi di tutti: nella scuola impariamo a leggere e scrivere, quindi impariamo a perfezionare la nostra comunicazione. Ma quale tipo di comunicazione? Solo quella verbale. La comunicazione non verbale è quasi totalmente ignorata dalle nostre istituzioni educative. Il risultato è che si può essere primi della classe e superare concorsi per l’insegnamento anche essendo piatti, monotoni e noiosi. Si può anche vincere una cattedra universitaria di letteratura italiana o di storia del teatro ed essere così inespressivi da non mantenere l’attenzione e farsi capire da un pubblico di allievi.
Da un punto di vista diverso da quello ordinario, ciò apparirebbe incredibile, se non altro per l’intrinseca incongruenza. Perché? Perché favorire il pieno sviluppo della persona dell’allievo è considerata una finalità primaria della scuola. Ora, che cosa significa essere inespressivi? Significa aver tagliato il contatto con le emozioni, quindi con una parte essenziale del proprio essere. Ma la scuola, che pure dovrebbe mirare all’armonico sviluppo della persona, non sembra dare a questo una grande importanza.
Mi si dirà: e questo che cosa c’entra con la scienza? C’entra eccome: chi decide, in ultima analisi, come si debbano selezionare le persone ai concorsi? Le leggi dello stato, l’amministrazione. D’accordo, ma come mai il parlamento o il governo scelgono una determinata linea e non un’altra? Come mai non richiedono che nella scuola per insegnare occorra in primo luogo saper comunicare, cioè attrarre l’attenzione, elicitare uno stato di apprendimento, saper condurre gli allievi a convibrare? Semplice, perché questi aspetti della pratica didattica non sono indagati come oggetto primario dalla scienza pedagogica. E questo perché?
Forse perché i pedagogisti normalmente non si sono formati nei teatri, nelle sale da concerto o nei luoghi dove si fa spettacolo o si impara a rapportarsi con un pubblico, ma a loro volta si sono formati sui banchi di scuola e all’università, dove ciò che contava non era la flessibilità espressiva e l’efficacia della comunicazione, ma la precisione del contenuto. Nel loro stato di coscienza comune il tema dell’espressività è relegato sullo sfondo.
Non posso dimenticare una presentazione che ho seguito ad un congresso di psicologia. L’argomento era la riconoscibilità delle emozioni dalle diverse espressioni del viso.
Il relatore parlò per un’ora, e posso assicurare che raramente ho visto una persona più piatta e monocorde.
E non voglio parlare del modo di scrivere: in certi ambienti di tipo accademico non solo è tollerata, ma quasi incoraggiata una qualità della scrittura fortemente depersonalizzata, così distaccata e astratta da diventare spesso difficilmente leggibile. L’oscurità diventa così sinonimo di profondità! Agli allievi è lasciato il compito di decifrarla, sentendosi incapaci e inadatti agli studi se non riescono nell’impresa.
Immaginiamo per un attimo personaggi come Dario Fo o Beppe Grillo cui venisse affidata la riforma della scuola.
Ciò che uscirebbe dalle loro teste non assomiglierebbe quasi per nulla alla scuola che tutti conosciamo. E non sto parlando di scuola di recitazione. Non è in questione il contenuto, ma il modo di trattarlo.
Non so se ne uscirebbe una gran riforma, ma di certo frequentare la scuola sarebbe più divertente. E non sarebbe cosa da poco.